Un certo tipo di società, quella consumista, conservatrice, liberista e populista, di fondo patriarcale, ci riversa addosso una serie di preconcetti e atteggiamenti che mai dovrebbero appartenere a uno spirito libero.
L’aspettativa degli altri, quelli “titolati” ad essere un gradino più alto nella scala sociale, condiziona in modo distruttivo il comportamento di chi non ritiene di essere su quel gradino. Costoro si affannano per veder riconosciuta una gratifica che, dall’altra parte, è soltanto l’accettazione che si sia svolto il proprio ruolo. Senza giudizio di merito.
Quando ero un ragazzino e andavo a scuola, vedevo che i miei compagni erano premiati dai loro genitori quando ottenevano buoni voti o buoni risultati. Alla fine dell’anno ci scappava magari una mancetta. Ecco, mio padre, che di stronzate ne ha fatte tante, mi ha sempre insegnato che io facevo solo il mio dovere, e che non portare a casa quei risultati attesi significava non che io avessi fallito, o che non avessi le capacità di arrivare dove egli si aspettava, quanto che io non mi ero impegnato abbastanza.
Ora, in questo ragionamento c’è un punto forte: lui credeva nelle mie capacità. Ma c’è un punto debole, molto debole: non le stimolava. Pretendeva e si aspettava che io tirassi fuori soltanto dalla mia determinazione l’impegno a fare sempre bene, anzi meglio.
La conseguenza di questo, sul carattere di un bambino delle elementari, è stata una sorta di frustrazione dovuta al mancato riconoscimento del merito, ma anche lo sviluppo di un carattere forte e spigoloso, dedito alla competizione fine a se stessa e al suo risultato, e mai al compiacimento di quanto realizzato.
Col crescere quel carattere è diventato più duro. Tanta, forse troppa autostima, il disprezzo per chi non ce la faceva allo stesso modo, la sufficienza nello sguardo e nelle parole rivolte al prossimo. Ho imparato a darmi traguardi vicini, mai enormi o lontani, perché tanto lo so che ci arrivo comunque, ma so anche che non sono capace di godermi l’ottenimento del traguardo. Allora perché frustrarsi con un traguardo complicato, con un unico salto, che mi prosciuga nell’anima e poi dire ok, sono qua, andiamo avanti? Meglio farlo a piccoli passi, uno dopo l’altro, e prendere coscienza, sempre più forte, di dove si può arrivare. Tanto sempre là arrivo. Perché ci arrivo, non ci sono dubbi.
Ci arrivo e non sono mai soddisfatto. Questo è il risultato di un’educazione senza gratifiche. Eppure il risultato è importante, ma chi se ne frega se lo è. Io guardo al prossimo.
Selvaggi. Si diventa selvaggi nella determinazione. Non c’è spazio per l’autocompiacimento, ma nemmeno per l’attesa della gratifica altrui.
Torniamo alle società che impongono alle persone la ricerca della gratifica altrui. Quelle persone che sono svuotate dalla continua mancanza del riconoscimento, quelle persone che non sono più capaci di fare le cose per se stessi e di sapere di averle fatte, e bene.
Ecco, a quelle persone, che selvagge sono ma non sanno più di esserlo, io dico di riscoprire se stessi. Di riguardare le proprie radici. Di ricordare quando erano ancora piene di sogni e di prospettiva. Di guardare quando erano sciocche, quando erano ribelli, quando, ancor prima di crescere, avevano sentimenti forti dentro l’anima.
Non lasciate mai che questi sentimenti, che ancora ci sono, possano rimanere sopiti a causa degli altri, o peggio a causa di un’impostazione culturale chiaramente retrograda che non deve appartenere all’uomo.
Siate selvaggi, splendete. Splendete sempre.
Sbattete in faccia agli altri il vostro nitore. Costringeteli ad indossare gli occhiali da sole. Non ascoltate le critiche fini a se stesse, accettate solo quelle costruttive. E non permettete mai che gli altri possano mortificarvi, o ridimensionarvi, o peggio dirvi come dovete essere. Tanti pensano che un partner, un amico, un figlio siano un’estensione del proprio corpo. E quando quell’estensione non risponde come si aspettano che debba, come un vero proprio arto, allora parte la denigrazione, la minimizzazione, il pensare di poterne fare a meno. Lasciateli fare, sorridete, ignorateli.
Perché i ragazzi selvaggi splendono sempre.