Di solito a Natale non sono triste. Sono esasperato, sono disturbato, sono insofferente. Ma non triste. Eppure ecco. Quest’anno la tristezza è venuta così, insieme al fantasma dei Natali passati. Che non è lo stesso fantasma di Dickens, sia chiaro.
Proviamo a spiegarla, questa cosa. Io attendo che il Natale passi. L’ho sempre fatto, più o meno con successo. Qualche volta mi sono concesso di stare con nonna, perché lei ci teneva, ma comunque mai in uno di quei pantagruelici convivi che fanno parte dell’immaginario collettivo. No. Io andavo a casa di zio Massimo, dove c’era nonna, che mi faceva i carciofi fritti e il baccalà. Fine. Si pranzava presto, si finiva ancora prima. Roba che verso le 13 era ora del caffè, che peraltro zia Sa non fa, quindi me lo facevo a casa per conto mio.
Poi, una decina di anni fa, pensavo di aver risolto questa cosa del Natale. Andarmene via, con chi amavo davvero, e pace per tutti gli altri reclamanti. Il Natale del 2014, in effetti, era stato il capostipite di un modo di essere. Che poi, però, causa le interferenze dell’Universo (sempre lui di mezzo), è rimasto tale solo per qualche anno.
Però c’era la NBA e le partite di Natale che ti facevano superare il momento. E bene o male è andata di lusso. Fino a quest’anno. Perché quest’anno abbiamo avuto diverse mancanze. Quest’anno non era gradito l’invio del mio pacco di Natale, e quindi non l’ho mandato. Quest’anno ci sono cose da fare, rapporti da consolidare a discapito di altri da mollare, e quindi non ci sono state nemmeno due parole di auguri. Quest’anno è mancato l’archetipo del 2014 ed è venuto a protestare di notte, mettendomi addosso tanta, tanta tristezza.
La tristezza non è per il Natale, sia bene inteso, ma per quello che sarebbe dovuto essere, almeno nella mia idea, e non sarà mai più. La consapevolezza di questo, aggiunta al rifiuto della condivisione di qualcosa che mio non sarà mai, ma a cui mi faceva piacere partecipare in spirito. Ebbene, andate pure tutti a fare in culo. Significa che il prossimo anno non succederà, e che sarò libero di fare tutto quello che voglio fare ma che, per semplice rispetto, finora non ho fatto.
Sia chiaro, non devo più rendere conto a nessuno. Se voglio andare a fare foto al di là del mare non dovrò comunicarlo a chicchessia. Se vorrò presentarmi in visita a chi mi ha ospitato trent’anni fa, lo farò senza dover organizzare un soggiorno. Passo, una rakia, e me ne torno.
Perché quello che fa più male di tutto è il sentirsi un fantasma. Da un momento all’altro. Anzi no. Quello che fa più male è sentirsi un fantasma senza un motivo. Perché se si sapesse il motivo, allora ci si fa i conti e lo si accetta, prima o poi. Non saperlo ti mette addosso tanta tristezza. Delusione, forse? No. Tristezza. Tutto quello che rimane. Learn to love your anger, now. Come nel 1991. Di nuovo. Senza un motivo.
L’importante è che le persone a cui si vuole bene siano felici, e non tristi. E su questo non ho dubbio e un po’ mi rassicura. Sono io che sono triste, ma non è un problema. Ho imparato da anni a superarla, la tristezza. In qualche modo si fa. Oggi ancora non so come sarà questa volta, ma ne riparliamo l’anno prossimo, quando di nuovo andrete tutti a fanculo ma io mi farò una gran bella risata, perché triste non sarò più.