Ci sono un sacco di cose da fare, un sacco di cose da vedere, un sacco di cose importanti, al di là del mare.
Un po’ come i viaggi in treno, la traversata del mare su una nave è anche un percorso interiore. A differenza dei viaggi in treno non ha senso guardare dal finestrino, non ci sono stazioni, non c’è paesaggio. Solo il rumore del motore, la grande distesa d’acqua e l’attesa. L’attesa di scorgere, lontano, l’approdo.
Una volta ho fatto un viaggio. E non mi sono fatto mancare niente. Sono salito su un treno, ho viaggiato per quattro ore in uno scompartimento un po’ così, non attrezzato. Era un treno piccolo, non di quelli veloci. Doveva attraversare l’appennino passando per Campobasso, e tutta la parte della montagna, nel Molise, con le gallerie, il percorso sul crinale, dava quasi un senso di antichità. Mi sentivo un pioniere. Da solo, il mio walkman con una cassetta fatta apposta con tutte le canzoni dei Duran Duran che mi piacevano, la settimana enigmistica. A quel tempo non c’erano i tablet, o gli smartphone. Io, la valigia, carta, penna e il walkman con una cassetta. Non una, in effetti. Mi ero portato pure The Essential Count Basie. Ma l’ho tenuto per i giorni successivi.
Il treno mi ha fatto arrivare al porto, dove sono salito su una nave, passaggio ponte. La nave doveva attraversare il mare, di notte. Ricordo che arrivai tardi, là, e non sapevo dove andare ad imbarcarmi. La valigia dietro, a chiedere dove potessi. Si sa, in Italia dopo le otto di sera c’è il deserto. Dalla stazione del treno al porto un’odissea. Trova il bus giusto, aspetta che passi, cerca di scendere al posto giusto.
Finalmente sulla nave, trovo un sacco di poltrone libere. Mi metto là, cerco di dormire, poi arriva un controllore che in una lingua barbara mi dice qualcosa. Insomma, alla fine mi caccia via perché il mio biglietto prevedeva solo il passaggio, non la poltrona. Ok, mi metto sul ponte, all’aperto. Era estate. Albeggia. Non credevo che fosse così bello vedere il sole sorgere dal mare. Io sono sempre stato abituato a vederlo tramontare, il sole nel mare, e chiaramente se ci tramonta non può di certo sorgerci. Qual era quel film in cui volevano andare a vedere l’alba a Ostia? Ecce Bombo? Forse.
Alla fine arrivo al di là del mare. Dove ci sono un sacco di cose belle da fare, da vedere, da conoscere e da riconoscere. Dove speri che qualcuno ti aspetti. E se non ti aspetta, beh, facciamo in modo che aspetti. Basta una telefonata, no? Ma non c’era la telefonia mobile. Però c’era il telefono fisso, un numero che avevo ottenuto litigando con uno della Telecom, e il tizio che mi ospitava che mi ha dato una mano per non fare brutta figura e farmi riattaccare il telefono in faccia.
Tutto bene, me ne vado a suonare il pianoforte in quella chiesa, e Count Basie ancora starà maledicendomi per aver osato tanto. E decido di andare oltre. Era un martedì. Perché che senso ha arrivare al di là del mare e fermarsi sulla riva? C’è un continente da esplorare, ci sono un sacco di cose belle da fare, da vedere, da riconoscere e da ritrovare.
La mattina, molto presto, salgo su un pullman. Altre quattro o cinque ore di viaggio. Ma ne è valsa la pena. Sono arrivato dove c’era un grande incrocio, con due segnali. “Sogna”, da una parte, “Vivi la tua vita” dall’altra. Lo so, io sarei andato verso “Sogna”, ma c’era quel filo, ancora invisibile, quello rosso e argento, e chi lo teneva dall’altro capo mi ha tirato via, nella giusta direzione.
Sono tornato via terra, con la macchina e col treno. Non è la stessa cosa, attraversare il mare per tornare a casa. Sai quello che troverai. E probabilmente non ti piacerà. Ma di certo c’è che il mare va attraversato, di nuovo. Per andare a quella stazione di servizio. Ci sono un sacco di cose belle, da vedere, da fare, da incontrare, da riconoscere. E c’è chi tira il mio filo, da sempre, per sempre, anche davvero.