Ho sempre sentito il volo transoceanico come qualcosa di grandioso, forse perché quando ero un ragazzetto sembrava già fuori portata una qualsiasi città d’Europa.
Poi c’è questa cosa dell’aeroporto. Probabilmente deriva dal fatto che, sempre da ragazzetto, capitava sovente di dover accompagnare mio padre a prendere un volo, o a recuperarlo da uno dei suoi viaggi di lavoro.
Infine c’è quest’altra cosa delle valigie mai pronte. E questa, probabilmente, deriva da quella volta nel 1992 a Cervinia, quando assolutamente non ero pronto a partire, e ho dovuto rinunciare a un concerto della mia band.
Insomma, sembra che io debba andare in aeroporto, ad accompagnare qualcuno che deve andare in California, non si capisce bene se a San Francisco o a Los Angeles, ma comunque si dovrà imbarcare su un aereo di quelli grossi.
Sembra che l’aeroporto sia a Palermo, e siccome non ci sono strade che portano da Messina a Palermo, pare si debba andare in un qualche tapis roulant che collega le due città. E già è strano. E ci sta pure un tunnel, tipo quelli del treno, disegnati sulla parete, da cui poi il treno spuntava davvero per arrotare Wil E. Coyote.
Arriviamo in aeroporto, io ho un borsello, una camicia a fiori, dei pantaloncini corti e le mie crocs. Niente di più. E quando sono là, a salutare le persone che ho accompagnato, mi si dice che devo partire pure io. Ma come, perché? Perché il tutto è un viaggio premio, in cui si deve partire in tre, altrimenti accade che bisogna restituire i soldi. Ok, quindi devo partire. Ma non ho bagaglio. E qua già il primo passo di consapevolezza verso la libertà: ok, non ho bagaglio ma ho la mia carta di credito e là, alle Hawaii (perché poi si dovrà andare pure alle Hawaii) ci sono i negozi. Comprerò là quello che mi occorre. La lingua la conosco, credito ne ho, qual è il problema?
E di nuovo la sala di attesa. Enorme. Con i divani che sembrano lettini. Si dovrà aspettare per ore. Del resto si deve andare in California, mica a Grottaferrata. Infine l’aereo. Sul quale io sono già salito. Si entra da dietro, e c’è una scalinata ampia che porta a una specie di plancia dell’Enterprise, ma non così futuristica.
Si parte. Posso vedere il nostro pianeta sotto di noi, perché si sa, i voli a lungo raggio portano gli aerei in orbita. Il punto è che non si arriva mai. Il kindle non funziona, il telefono nemmeno, non ho nemmeno un libro da leggere. Non che non ci avessi pensato, ma non c’era nulla, oltre quell’enorme sala d’attesa. E le persone che accompagnavo sono scomparse. Mi trovo solo, là dentro, e non si sa dove si va, quando si arriva, cosa succede.
E di colpo tutto questo non c’è più. C’è un cinema, sì, sempre quel cinema che non so dove sia, che ha una scala per andare alla sala proiezioni, e la sala d’attesa sotto. Io ovviamente sono in sala d’attesa, e con me c’è una ragazza sconosciuta, mora, capelli lunghi e lisci, occhi neri e inclinati, carnagione scura. Per andare al cinema abbiamo bisogno dei tagliandi con il numero del viaggio premio, ma se li sono presi in aeroporto. Sì, perché il cinema è un altro elemento di quel premio. Fornisco il mio documento di identità, niente, servono i tagliandi. Chiedo alla ragazza di vedere se li ha lei in borsa. Ovviamente no, sono in aeroporto. Le dico che se vuole possiamo andare via, a farci una passeggiata, chi se ne frega del film. Lei mi dice che va bene, ma in questo modo dovremo restituire tutti i soldi del premio. Lo stesso premio di prima che è svanito all’improvviso.
Vedo la porta d’ingresso, il sole entra da essa. Non saprò mai se poi siamo usciti a farla, quella passeggiata, oppure se siamo ancora là, in sala d’attesa. Quello che so è che è un’altra mattina di gennaio, dopo un’altra notte difficile, e l’unica cosa che mi rincuora è leggere uno scritto per me, che non dovrebbe mai mancare. E che io, a mia volta, non dovrei mai far mancare.