Quando avevo 14 anni era il 1986, e per la prima volta mi sono trovato a fare i conti con qualcosa che succedeva lontano da me, qualcosa di cui non si parlava, ai tempi in cui la globalizzazione non c’era ancora. Avevo appena finito le scuole medie, e in televisione, alle undici e mezzo di sera, trasmettevano le finali NBA tra i Boston Celtics e gli Houston Rockets.
Da un paio d’anni avevo cominciato a praticare la pallacanestro, che ancora non si chiamava basket, e l’amore vero è nato guardando le olimpiadi di Los Angeles, nel 1984. Ma davvero uno sport così entusiasmante, tecnico, dinamico, di contatto, non viene considerato come dovrebbe, e si parla solo di calcio? In effetti avevamo vinto da poco i mondiali nel 1982 e siamo andati a Los Angeles a fare una brutta figura, portando Bearzot, l’allenatore che aveva vinto i mondiali, per meriti. Ammazzando chi là ci aveva portato. Ma questo avviene sempre, con le olimpiadi.
Sta di fatto che, guardando quel basket di un altro continente, con altre regole, altre linee sul campo, più difficile, con il tiro da tre a 7.25 e non a 6.25 come da noi, quel fenomeno che all’anagrafe si chiama Larry Joe Bird, con il nome sulla maglietta, con il numero 33 (tutte cose qua impensabili), biondo, coi baffi, bianco in un mondo di neri, ha in un istante superato il mio essere tifoso della Juventus. Ancora oggi, quando mi chiedono per che squadra faccia il tifo, io rispondo i Boston Celtics. E ti dicono, ma io intendo il calcio. Eh no, non puoi pretendere che tutti intendano il calcio come lo sport per antonomasia. Proprio no. Io tifo i Boston Celtics.
Allora nessuno sapeva di queste cose. Non se ne parlava sui giornali, non c’erano i risultati in televisione, non c’era proprio maniera di sapere cosa succedesse al di là dell’oceano. Un mondo più semplice, in cui recuperare una semplice informazione su temi non popolari era un’impresa.
Eppure, un giorno, in un negozio nella mia piccola città, vedo in vetrina due cappellini da baseball. Di plastica, ovviamente. Uno dei Boston Celtics, uno dei Los Angeles Lakers. Entro, mi informo. 14.500 lire. Cavolo, sono un sacco di soldi. Considerato che la mia paghetta settimanale è di 3.500 lire, ci vuole più di un mese per comprarlo. Prego il negoziante di tenermelo da parte. Quale? Quello dei Celtics, quello verde e bianco. Ma dai, quello viola e giallo è più bello… No, quello te lo metti tu. Ma me lo conservi? E chi vuoi che se lo compri… sta qui. Ti aspetta.
Alla fine l’ho comprato. Fiero come non mai. Me lo portavo ovunque, e ho continuato a farlo per un sacco di anni. L’avevo con me anche nel 1991, quando ho fatto quel viaggio che tanto mi ha fatto crescere.
Là c’era un ragazzino, biondo, carino, con gli occhi chiari. Lui era più piccolo di me, aveva 14 anni, esattamente l’età di quando io ho comprato quel cappello. Quel ragazzino stava sempre intorno a me, provava a parlarmi in qualche modo, abbiamo fatto delle cose da maschi, gli ho insegnato le parolacce nella mia lingua. Io penso che lui, in qualche modo e per qualche giorno, abbia avuto in casa quel fratello maggiore che la vita non gli aveva dato. E io mi sono trovato a guardarmi dentro, e a capire che lui era per me un terzo fratello. Il mio, di fratello, il secondo, è un po’ più grande, e siamo sempre stati in conflitto, da ragazzini. Per me è stata una scoperta poter vedere quanto affetto, quanta affinità, quanto di bello si sia costruito in pochi giorni: un legame forte, libero, senza un motivo reale. Ci piacevamo. E ci volevamo bene.
Poi la vita ci ha messo di nuovo il suo. Tra guerra, pandemia, strade intraprese e diventare grandi, ci sono voluti 30 anni per vederci di nuovo. E quel ragazzino biondo, ora, non è più biondo, e non è più ragazzino. Ma i suoi occhi sono gli stessi, e il modo in cui mi ha accolto, in cui mi ha guardato, in cui io ho guardato lui, senza dire tante parole, ha fatto sì che 30 anni fossero soltanto un momento di distrazione.
Lui è il mio terzo fratello, io con lui mi sento a casa. E la cosa più bella è stata bere assieme. Perché non si poteva mica far bere un fratello di 14 anni. No. Ma uno di 44, che oggi è più alto di me, assolutamente sì. Abbiamo brindato, faceva caldo, tanto caldo. Abbiamo fatto un barbecue. Beh, in realtà l’ha fatto lui. Abbiamo mangiato cose che ho cucinato io, abbiamo messo insieme le nostre terre e i loro prodotti. Abbiamo sentito qualcosa di forte, di emozionante, di strano. Perché, davvero, non si può spiegare come un sentimento tanto intenso possa essere nato in così poco tempo.
Bevi con me, fratello mio, e portami di nuovo in campagna per salire su un trattore. Ma stavolta lo guidiamo, perché ormai siamo ragazzini cresciuti e possiamo fare quello che ci pare. Liberi, sempre, splendenti, sempre.
Dimenticavo: quel cappello dei Celtics io ho provato a nasconderlo, nel 1991, sotto il suo letto, perché lui lo adorava e io volevo che lui potesse avere quelle belle sensazioni che il cappellino aveva dato a me. Però lui lo ha trovato e me lo ha riportato subito prima che io partissi.
L’ho conservato con me per tanto tempo, e ora il cappello dei Celtics è dove deve essere. Conservalo per me, fratello mio, e se sarà il caso dallo a un tuo nipote quando ci sarà e fallo contento. Come me, come te. Io, intanto, ti aspetto a casa.