Tutti noi ci aspettiamo il rispetto da parte del prossimo. Proviamo a guardare dal punto di vista opposto, e il prossimo siamo noi. La logica ci dice che se tutti noi ci aspettiamo rispetto, allora tutti noi offriamo rispetto, e quindi nessuno dovrebbe aspettarsi rispetto. Qualcosa non funziona.
A volte capita che ci impegniamo così tanto, nel fare qualcosa per qualcun altro, che ci sentiamo in diritto di riconoscere della gratitudine nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi comportamenti. Di contro, molto spesso, ci sembra che qualcun altro dia per scontato, come se fosse un suo diritto acquisito non si sa in virtù di quale principio, che quello che facciamo sia soltanto il nostro dovere.
Peggio, accade che qualcun altro si abitui a tal punto al nostro comportamento altruistico, da percepire qualcosa di strano se il nostro comportamento cambia e torna ad essere meno disponibile.
Viviamo in un mondo di relazioni che si consumano ormai soprattutto attraverso un contatto non diretto. Il male di questo secolo sono le applicazioni di messaggistica istantanea, ma come tutti gli strumenti, esse non sono davvero il male. L’uso che ne facciamo è malsano. Certo, valeva prima per il telefono, e a volte vale tutt’ora.
Priorità. Se qualcuno chiama al telefono, in barba a qualunque buon senso, ci precipitiamo a rispondere. Ignoriamo chi abbiamo davanti e diamo la priorità ad un oggetto che squilla, come se dalla nostra risposta dipenda il destino del pianeta. Non c’è pranzo, non c’è cena, non c’è passeggiata che tenga. Il telefono, e i suoi messaggi, hanno la precedenza. Meritano la nostra attenzione di più di quanto non la meriti la persona che è con noi, che fa cose per noi, che sovente ci ama. Certo che ci ama, lo sappiamo, è scontato. Lo diamo per dato acquisito. Invece da quel telefono chissà che cosa potremmo ricavare. Magari un meme di buongiornissimo kaffeeee. O una burletta. O una di quelle chat di gruppo o di famiglia in cui persone di cultura, provenienza e sensibilità diversa sono costrette a stare insieme in nome di non si sa quale legame.
Riusciamo ad infastidirci di un messaggio mal scritto, o inopportuno. Ci guastiamo l’umore, rispondiamo male. Ma non solo al messaggio: abbiamo la persona di prima, quella che ci ama al nostro fianco, che ora ci dovrà sopportare di cattivo umore.
Stiamo per andare a cena, e siamo al telefono. La persona di prima ci chiama per dirci che è pronto. Ha preparato la cena tra mille impegni, tra il lavoro e altre incombenze, ci ha pure messo un bel po’, per non servire a tavola una scatoletta di tonno aperta al momento. Noi però non interrompiamo la telefonata. No, ci sediamo a tavola con il telefono tra l’orecchio e la spalla e continuiamo a parlare, indifferenti alla solitudine della persona di prima. Sì, sempre quella che ci ama.
Lavoriamo due ore per risolvere un problema di quella persona. E alla fine ci ritroviamo a sentirci dire che no, meglio come era prima, quando sappiamo benissimo che il problema lo abbiamo davvero risolto. E ci aspettiamo rispetto.
Lo stesso rispetto che dovremmo garantire sempre, quello che pretendiamo ma non sempre diamo.
Allora andiamo a farci una passeggiata, dai. Usciamo assieme, camminiamo assieme, e lasciamoci tutto indietro. E senza dire una parola me ne vado ad appoggiarmi ad un muretto, prendo il telefono, e comincio a scorrere o leggere chissà cosa, ma è importantissimo. Al punto di lasciare la persona che mi ama, quella che do per scontata, quella di cui mi importa il giusto tanto c’è sempre, ad aspettare, ancora, che io faccia il mio comodo. Lasciamola pure là rubandole il suo tempo, perché il suo tempo non è importante come il mio. Il suo tempo è al servizio del mio tempo, e mi deve rispetto.
Cose che succedono al di qua e al di là del mare, per essere chiari, e fanno male. Ma alla fine si tratta solo di un giorno in meno.