Mi sa che era il 1978, o forse il 1979, quando andai al bar di Lina, vicino alla scuola, e trovai quella enorme consolle con un televisore dentro e un gioco in bianco e nero. Cento lire ci volevano per giocare, e bisognava distruggere una formazione di invasori alieni che scendevano verso la tua astronave. Beh, in realtà l’astronave la chiamavamo cannoncino, e da là, per tutti i videogiochi a venire, quando si guadagnava una vita dicevamo: “ho vinto un cannoncino”.
Alla fine è tutta una grossa metafora: andiamo avanti, nella nostra vita, a combattere chi ci invade. C’è chi viene e pretende di insegnarci come dobbiamo comportarci. C’è chi viene e si aspetta qualcosa da noi, qualcosa che noi non abbiamo o che non possiamo essere, perché le sue aspettative sono diverse da quel che siamo. C’è chi viene a dirti che sei in missione e ti forza a seguire una strada, e la tua vita cambia, senza che nemmeno tu te ne renda conto. C’è chi viene e viene solo per giocare con te, coi sentimenti, con le relazioni, e poi se ne va. C’è chi viene e basta, e poi se ne frega del tutto, e invade il tuo spazio. Non space invader nel senso letterale, ma è divertente pensarlo in questo modo.
Ogni volta lottiamo con forza per resistere all’invasione, ogni volta i mostriciattoli si avvicinano sempre di più, sempre più veloci, e si fa sempre più fatica ad eliminarli tutti. Qualche volta ti prendono, e tu perdi un cannoncino. Sai che ne hai tre, e sai pure che più ondate di mostriciattoli sconfiggi, più cannoncini puoi vincere.
Siamo qua, a sparare dal nostro cannoncino, tutti i giorni, e continuiamo a vincerne per andare avanti. Ma prima o poi gli invasori hanno la meglio. Vincevano sempre, alla fine, alla consolle del bar di Lina. Non importava quanti cannoncini riuscivi a guadagnare. Loro erano sempre più veloci e tu eri là, da solo, sempre più in affanno.
L’unica differenza, in questa bella storia, è che là potevi mettere altre cento lire e ricominciare daccapo.